Giorgio Bonacini (1955) ha fatto parte del gruppo d’arte e poesia “Simposio Differante”. Dal 1989 è redattore di “Anterem”. Tra i suoi libri di poesia: Teneri Acerbi (1988), L’edificio deserto (1990), Il limite (1993), Falle farfalle (con A. Pellacani, 1998), Quattro metafore ingenue (2005). Dopo sei anni di silenzio, Bonacini torna a proporci una nuova opera poetica: Sequenze di vento, Le voci della luna, 2010.
Ai nostri lettori sono qui riservate alcune preziose anticipazioni: cinque poesie tratte dal volume, la prefazione di Mara Cini, la postfazione di Marco Ercolani.
I.
E’ questo il vento ruvido, l’abbraccio
il corpo a squame che arroventa
e brucia l’aria che in un timido
fulgore abbatte il tempo
e in un frastuono lo combatte?
Allora è un soffio crudo e indecoroso
un fischio stupido, indeciso
appesantito da un attrito che ripete
senza nuvole di caldo o di fragore
il suo dilemma sgretolarsi tra le cose.
X.
Diciamo qualcosa che sembri la forma
sincera del vento, per fare di tutto
nel sogno sbagliato e trovare una tana
una pancia, una buca inchiostrata di luce
diffusa quel tanto ma lenta, confusa.
E’ qui che vogliamo una pace, una vita
più giusta, una mente precoce che sa
di alfabeti e saluti, di numeri antichi
per forma e distacco, nella testa che indugia
allo scempio di noi, allo sconquasso.
XIII.
Donare una parola senza casa
e senza cosa, farne un brivido che insegni
il tocco semplice che porta l’infelice
a una bontà fatta scrittura levigata
meditata nella stanza e non murata.
Un motivo per chissà quale momento
di sveltezza o nebbia infaticabile
nel segno che ricorda ai suoi pensieri
il benvenuto a quella nuvola
accennata, verosimile o teorica che sia.
*
Ma è falso che tutto si tinga
di buio e di nero - io vedo
sul bianco pudore di un muro
animali tardivi che provano
crepe, equilibrio e dintorni -
il colore di fondo macchiato
a invasione di immagini e scarti
sostanze di desolazioni
per gocce velate ma solide
già destinate a un ardore di sillabe
al tempo che toglie dal cuore
le cose segnate da un volo
finale di lucciola - sola e isolata.
..
Tra un albero e l’altro c’è un varco
una perdita pura, essenziale - un distacco
di foglie a un’altezza discreta. E’ così
il denutrirsi del corpo - il colore che piega
nei minimi oggetti è un ricordo possibile
raro, dovunque sottratto. E’ probabile
allora che sia la dolcezza e in assenza di vento
la voce. Da un albero all’altro è il supporto
dell’aria, la prontezza dei rami o il disporsi.
Un aspetto fra i tanti d’intelligenza e candore.
PREFAZIONE
Sequenze inchiostrate di vento
Sequenze e vento. Dunque una serie di inquadrature
che si susseguono (un’ombra che scioglie e dilaga)
( vene di neve in un mare di veli), una successione
di fenomeni in movimento (un giro di collo)
(un vortice molle ma netto) che muta per gli
spostamenti minimi dell’aria. Parole di vento, folate,
bave, creste d’aria, alito vitale delle cose, contributo
d’altitudine al respiro. Il vento è metafora e figura
reale di qualcosa, è come un soffio di scrittura che
raccoglie e sparpaglia (una scena che cambia in
attesa di vita). E qui c’è un vento-forbice a ritagliare
e sagomare. Un vento chimico che si sostanzia in
vapori, nebbie e brine. Un vento che sibila e stride,
che sgretola e contorce. Un vento dei pensieri che
contempla, decifra, scopre e dice.
Le connotazioni atmosferiche (un cielo di condensa)
(un sonno umidissimo) si specchiano in
oggettivazioni linguistiche (pensiero che osservo
con cura) (scritture che sembrano croste) e
viceversa, con un’alternanza di riferimenti visivi
plausibilmente “veri” (l’inverno provvisto di un
semplice cielo) (il fondo soffice che resta a
rinsecchire) e di riferimenti puramente verbali
scelti per la loro assonanza sonora -sudorazione
fonica dice l’autore- (un sogno di sogni) (qualcosa
che vedi da un vetro in un velo) (un suono da nulla/
un attrito di sabbia a provare la pelle) che via via
producono o scartano differenti fotogrammi
semantici.
Il lavoro di Bonacini, come è stato già detto da
alcuni attenti critici, non si sofferma sull’intimità
pur procedendo sempre da un personale “dentro”
(ogni nostra clausura) (il colore che sale dai
pensieri più corti) verso un “fuori” aperto sulla
natura e le sue illusioni (la grandine forte tra i
lampi) (i fatti al fondo di un miraggio)
(l’ingannevole distesa trasparente) (il paesaggio
che l’aria si prende) in un’oscillazione continua
che fa di ogni percezione una percezione alterata
dai suoi stessi segnali, siano essi emotivi o
concettuali. E’ nello svolgersi e riavvolgersi delle
sequenze, nel riprenderne o stopparne
l’apparizione, nell’attrito, nella frattura, nella
costruzione “interiore” cristallizzata e subito
rifranta, la cifra significativa della sua scrittura.
A questi speciali momenti di tensione, tra il gesto
concreto dello scrivere e i significati che esso
genera, appartengono azioni come tenere il filo,
sognare una pietra che appare e svanisce e affida
il suo peso a un errore del tempo, percorrere un
nastro di strada dove trovare una buca inchiostrata
di luce.
La poesia come procedimento univoco non esiste.
Soltanto se qualcosa ci costringe a decifrare /
anche l’intreccio in cui si perdono / felici i
movimenti della terra, soltanto se ci si prende il
tempo necessario per un controllo inatteso, per
fare attenzione agli insensati avvertimenti delle
immagini, soltanto se in prima persona partecipiamo
a questa selva / di voci così sradicate da prendere
l’erba / per dare poesia, possiamo scoprire un
aspetto fra i tanti d’intelligenza e candore.
Mara Cini
POSTFACIONE
Una luminosa oscurità
1.
Giorgio Bonacini finalmente, dopo sei anni di
silenzio, torna a proporci un nuovo libro, questo
splendido Sequenze di vento, vincitore del Premio
Giorgi 2011. E ritorna visibile agli occhi del lettore
una poesia tanto necessaria quanto misteriosa.
Il libro si compone della lunga sezione eponima,
Sequenze di vento, composta da trenta poesie
dai dieci ai tredici versi ordinate con numeri
romani, e poi da due sezioni finali, la prima si
chiama …corpi sospesi, la seconda svaniti…
La sensazione è quella di un poema unitario e
compatto seguito da una “coda” musicale
frammentaria, un epilogo aperto.
La prima domanda che il lettore si sente
bisbigliare da questi versi è: a chi appartiene la
voce che parla? Sembra la voce neutra di nessuno,
insieme «grammatica storta» e «evidenza nel
vivente». Bonacini contagia il lettore con un suo
intimo De rerum natura: lo costringe a muoversi,
tra parole apparentemente pacate e munite di
senso, e a diventare spettatore di un universo non
definibile da un unico senso, con il progetto di
«Strappare uno sguardo alla luce /
all’impasto di un’ombra che scioglie».
L’avventura, l’experimentum di questa poesia,
è mostrare che le parole sono sempre degli enigmi
ed è dentro il loro non rivelarsi che combattono
l’ultima, silenziosa battaglia: «una mente precoce
che sa / di alfabeti e saluti, di numeri antichi /
per forma e distacco, nella testa che indugia /
allo scempio di noi, allo sconquasso».
Bonacini si sottrae al rischio di molti poeti della
neoavanguardia, zelanti costruttori di un
neorazionalismo della parola. La parola di Bonacini,
pur utilizzando un lessico antilirico e astratto,
non rimuove i tumulti interiori. All’interno di un
lucido antibiografismo, crea un clima di assilli e
paradisi, dolcezze e violenze, attento ai minimi
movimenti della natura reale e immaginata:
«Tu pensi che sia una farfalla /
di gocce di pioggia impossibile, pesa //
là dove non smette e deposita ancora /
un’immagine stanca, una pelle incurante /
che spinge e nasconde, e ricade //
un millimetro in più fuori tempo /
alla fine di ciò che si muove e si attende».
Insorge, nel poeta, la tentazione di non sapere e
di non capire, di ritirarsi nell’ombra. Bonacini
non vuole soffocare dentro «la smania di rendere
tutto sgargiante». Preferisce «svanire modesto e
imperfetto». L’esercizio zen della sua poesia lo
dimostra con particolare, cristallina evidenza.
2.
Il poeta francese che Bonacini cita in epigrafe al
suo libro, Franc Ducros, scrive: «Cosa avrò detto
del vento? - che fa brillare il vuoto, /
liscia il pelo dell’acqua, arruffa i rami e tramuta
in oceano i prati… /
In realtà non avrò detto che la prima di queste
cose».
La «prima di queste cose» è far brillare il vuoto.
Bonacini lavora a questo minimo e fluttuante
splendore, mantenendo una sua pensosa
leggerezza nell’usare la materia delle parole.
Sa «il paesaggio che l’aria si prende / e sottrae
all’incoscienza di un volo». Vengono in mente
le parole di un celebre poeta francese,
misconosciuto in Italia, André du Bouchet:
«non c’è sempre / nulla // il vento».
In questa frase che afferma e che nega la
presenza del vento c’è il senso di una sospensione
che continua a durare.
3.
Ma Bonacini spinge la sua ricerca oltre la
costruzione linguistica, evidenzia metafore che sono
segnali improvvisi, analogie fulminee,
brividi metafisici, scintillanti oscurità.
«Difficile allora sognare una pietra /
che appare e svanisce e affida il suo peso /
a un errore del tempo».
Scrive il poeta, in una pagina teorica:
«Il tema o problema della presunta “oscurità”
della poesia è un argomento antico. Per alcuni la
poesia si deve “capire” per altri si deve “sentire”,
per altri ancora qualcosa d’altro, e ognuno è
fermo a quella propria parzialissima “verità”.
Ma il senso della poesia non sta, credo, nella
sua facilità o difficoltà di lettura, ma nella capacità
della parola (la materia della poesia è la parola, così
come il colore è materia della pittura, i materiali
plasmabili della scultura, il suono della musica, ecc.)
di uscire dal pensiero e dalle sue manifestazioni
(felicità, dolore, conoscenza, emozioni, sentimento,
sogno…) con una voce che sia il suono fondante e
vitale, con forma e sostanza, di una scrittura vera,
di intrattenibile sforzo e leggerezza, che spacchi il
reale per reinterpretarne i segni e le fatiche. Alla
fine per vivere e non far morire. Perché (è stato
detto, e ogni poeta lo sa, anche inconsciamente)
la poesia non ha il compito di svelare o di
nascondere, ma di indicare… Poi tutto dipende dal
nostro sguardo, che non è uno, ma molteplice,
indefinito…».
È difficile definire in modo più limpido la propria
poetica. Ci sarebbe da aggiungere un solo dettaglio:
Bonacini usa consapevolmente una lingua semplice,
mai eccessiva, proprio perché una lingua simile è
più pronta ad essere usata come materia trasparente
e plasmabile nel flusso delle analogie.
4.
«Si tenta allora di correggere / il silenzio».
Un tema di Bonacini è la dispersione,
l’“evaporazione dell’io” di baudelairiana memoria,
attuata con strategie che mettono in evidenza una
posizione neutra, impersonale dell’autore, che
mette l’io tra parentesi e si limita a correggere il
silenzio che lo circonda con lievi parole. «È il
sospetto di non vivere nell’aria / che ci aiuta».
Ma la levità è solo apparente, perché cela una
densità sostanziale.
«È una grinza di suono la vita», una piega contratta,
un deleuziano “vedere” la ferita. La «scienza in un
mare di segni», «il vento instancabile», sono gli
strumenti del poeta: lasciare che la parola scorra
piana e neutra, così da apparire comprensibile nel
senso immediato, ma misteriosa nel senso segreto,
inviolata in quel silenzio che le parole “correggono”
ma senza alterare il pudore profondo del tacere
originale. Secondo Blanchot, la letteratura è «cieca
vigilanza che, vedendo sfuggire se stessa,
s’immerge sempre di più nella propria ossessione,
è la sola traduzione dell’ossessione dell’esistenza».
Per Bonacini tradurre in parole la sua ossessione è
un atto magico e superfluo, come scolpire la polvere
o ritrarre un fiume. Quando, parlando del libro di
un amico poeta, scrive «carsica o in piena luce, la
poesia, come un fiume, è scorrere continuo e
nascita costante», ribadisce una personale idea di
poesia in continua metamorfosi di sensi e di suoni.
Questo dettaglio ci rimanda alle molte prefazioni e
note critiche che Bonacini ha scritto per poeti
importanti, ma anche giovani o al loro primo libro,
trovando per ognuno di loro frasi calibrate ed esatte,
attente ad evidenziare il nucleo migliore della loro
ricerca, sempre pronto a percepire il futuro di un poeta.
5.
La poesia di Bonacini, fatta di assilli, sospensioni,
disastri, paradisi, non si appaga della quiete della
sua bellezza. Il suo concetto di bellezza è più vicino
alla natura del fulmine, come ci illustra Perniola
in alcune pagine saggistiche: fulmine come fulmen
(arma, freccia), fulgor (lampo), fulgus (baleno,
fiamma veloce). Arma, lampo, fiamma, la poesia di
Bonacini cela/svela tutte le sue nature. Il poeta
cerca «qualcosa che sembri la forma / sincera del
vento, per fare di tutto / nel sogno sbagliato
e trovare una tana, / una pancia, una buca
inchiostrata di luce».
Le immagini del poeta diventano pittoriche,
come graffiti su una roccia. Le sue parole sono
questi «inchiostri di luce» nella tana. Lì il vento
trova le sue «sequenze», si ferma, inventa un
ordine, ma un ordine che viene dal caos:
«portano in sé un movimento /
le foglie staccate, slegate, cadute».
Sarebbe tempo di considerare Bonacini, poeta
protagonista di una trentennale storia poetica,
legato al laboratorio della rivista «Anterem»,
il traghettatore di una precisa originalità
etico-stilistica che sa condurre un gioco lieve e
tragico con la lingua, pur no rifiutando l’impasto
sperimentale della sua materia.
«Ma è tutto un altrove ribelle, una linea /
che storce, che sfiata, che sfuma //
in un verso ogni nostra clausura /
una semplice forma, un tormento, una linea /
di freddo sbagliata che inganna //
le foglie, e a distanza di luce le sillabe /
mute di colpo e di colpo concluse».
Il pathos di Giorgio è evidente, cifrato dal pudore,
in quelle sillabe «mute» e «concluse». Di quel
pathos misuratè lui il protagonista, fin dall’inizio.
Come dei luoghi che descrive.
6.
«I miei luoghi - scrive Bonacini - sono “fughe” e
“rifugi”, ma non nel senso di scappare o di
nascondermi, ma perché credo che la voce della
poesia (la mia in particolare) abbia bisogno e crei
essa stessa nel suo andamento in avanti (fughe)
e nelle sue pause (rifugi) la vita ulteriore che
percorre una doppia esistenza: quella della
scrittura poetica e quella di chi scrive. Ci sarebbe
anche quella del lettore (che può anche essere il
poeta stesso), ma il discorso sarebbe molto lungo:
bello ma complesso».
Diversi lettori sono stati intrigati e coinvolti dai
“luoghi” della poesia di Bonacini. Marco Furia scrive:
«Le usuali coordinate perdono valore,
ci si muove nella vivida dimensione dell’esistere,
nel magma ricco di energia dal quale il linguaggio
può sempre rinascere in forme inedite.
Soltanto per via di un’acuta percezione della natura
dell’umano idioma si possono porre in essere
proposte poetiche consistenti, come quelle in parola,
in una naturalezza frutto d’impegnativo riflettere
e profondo sentire, ossia, si conceda l’ossimoro, nel
vigile abbandono alla sensazione.
Come a dire: sono un poeta e so-saprò (la fiducia è
d’obbligo) quali sono i componenti della mia poesia.
Ne derivano esiti sinceri, non
artefatti, più nulla essendovi di oscuro attorno a un
enigma che, semplicemente presentato nei suoi
molteplici aspetti, smette, in virtù di consapevoli
accettazioni, di provocare drammatica angoscia.
Con eleganti pronunce, articolate e piane nel
contempo, offerte con premuroso garbo, sicuro,
mai retorico, del tutto privo di qualsivoglia
autocompiacimento, Bonacini approda a una
spontaneità scaturente dalla definitiva rinuncia
ad angusti schemi: la sua (alta) istanza estetica,
così, si fonde con l’etico invito a condividere un
atteggiamento, a fare altrettanto. Una “buona
insensatezza”, anzi ottima, davvero».
Stefano Guglielmin scrive: «dallo sperimentalismo
degli anni Sessanta e Settanta, egli riprende infine
l’incompiutezza sintattica, la reticenza, la
paronomasia e quant’altro evidenzi la
“trama impossibile” della poesia contemporanea
(…); dal primo Montale, egli assorbe il timbro,
l’impasto dei suoni e quel sentimento di decorosa
pudicizia nei confronti dei propri simili, ai quali
preferisce tacere l’orrido vero, malgrado sia
chiaro il nulla a cui siamo tutti consegnati». E cita
le parole teoriche di Bonacini, sempre molto lucide:
«La poesia esiste qui, ma ancora non sappiamo
se qui sia effettivamente il suo luogo, vero e reale,
di scorribanda o di meditazione. Qui c’è la nostra
visione, il nostro sguardo finito che, proprio in
virtù di questa sua limitatezza, riceve e avvalora».
7.
Avvicinando lo sguardo alle ultime due sezioni,
leggiamo, da …corpi sospesi:
«sospendi il tuo sguardo a un’altezza /
severa che dica di più /
su quell’aria che basta a formare /
una vita o un contorno invidiato di luce /
e spavento, un ronzio di formica»; oppure
«il calore che sale indovina /
in silenzio la forza di un nome /
esalta le cose e incendia di sé /
una grammatica storta /
la grandine forte fra i lampi /
caduta - e da un ragno assorbita».
Protagoniste delle poesie successive saranno
la mosca e la lucciola, sempre evidenziate in
corsivo nell’ultimo verso. Ma vorrei segnalare
anche questo splendido inizio:
«Ma è falso che tutto si tinga /
di buio e di nero - io vedo /
sul bianco pudore di un muro /
poesie di animali tardivi che provano /
crepe, equilibrio e dintorni - /
il colore di fondo macchiato /
a invasione di immagini e scarti /
sostanze di desolazioni».
La tentazione del lettore che legge Bonacini
e del critico che lo commenta è la tentazione di
non aggiungere nulla al silenzio che scaturisce
da queste parole. Si sente, all’improvviso, un
sussulto, che traversa la pelle e la mente. E basta.
Si diventa sismografi di quella percezione sospesa,
e si vorrebbe godere di questa pausa durante
la quale scaturiscono parole che non hanno
nessun desiderio di confessare, definire,
concludere, possedere, ma solo di vibrare. Parole
libere dall’io che le dispone. Parole come maschere
lievi che appena sopportano gli urti del vento,
«il circolo di un nome ventosissimo /
che accoglie, tra i dispersi e gli spettrali //
i dati in forme inesistenti, la materia in volo /
grave e le sostanze inedite ma chiare».
Verrebbe la voglia di definire Bonacini un pittore
o un musicista della parola, ma andremmo al di
là delle intenzioni del poeta. Che ha provato, tra
i pochi della sua generazione, a togliere peso alla
parola. A volte è accaduto.
Potrei citare l’ultimo Giorgio Caproni, alcune
sequenze di Lorenzo Calogero, l’opera di Cesare
Greppi. E gli esempi potrebbero continuare.
Ma la via tracciata da Bonacini è forse già
racchiusa in una poesia del Periodo T’Ang, opera
di Tu Mu, Il Giardino della Valle Dorata:
«Il pieno fiorire delle cose è dissolto, /
e insieme il profumo e la polvere. /
I flutti scorrono senza nulla sentire, /
l’erba da sola ha primavera. /
Il sole tramonta al vento d’oriente, /
mesti gli uccelli cantano. /
I fiori cadono, /
come lei che dall’alto palazzo cadeva».
Bonacini può, e deve, da poeta contemporaneo,
essere consapevole di questo non-io che parla,
in un non-tempo che è sempre nostro, e dire
cose d’amore e di dolore come se fosse sempre
l’ombra di un poeta forse mai esistito, il suo
fecondo, fedele simulacro.
«Tra un albero e l’altro c’è un varco /
una perdita pura, essenziale - un distacco /
di foglie ad un‘altezza discreta».
Marco Ercolani
fuente: Carte nel vento n.16
E poi prosa, saggi, musica, video, arte: tutto questo
nel nuovo numero di “Carte nel vento”, on-line nel
sito www.anteremedizioni.it
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